Fattori neuronici correlati ad elevata intelligenza

 

 

LORENZO L. BORGIA

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIV – 16 gennaio 2016.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

Sebbene l’ipotesi di vari ricercatori – fra i quali probabilmente Douglas Fields è il più noto – di un ruolo di grande importanza della glia nell’intelligenza umana non sia stata confutata da dati sperimentali, rimangono pochi i gruppi impegnati nella ricerca delle basi neurali dell’intelligenza che non pongano al centro del proprio interesse il tessuto nervoso cerebrale. In particolare, i neuroni del cosiddetto “neoencefalo”, e specificamente della neocorteccia, costituiscono da tempo l’oggetto di studio privilegiato per ovvii motivi evoluzionistici.

Storicamente, sono stati compiuti molti tentativi di porre in relazione proprietà dell’encefalo e gradi di intelligenza animale ed umana. Dall’attenzione alle dimensioni complessive, già all’epoca della craniometria antropologica praticata da Paul Broca, si passò all’estensione delle circonvoluzioni[1], con particolare riguardo per quelle ritenute sedi di specifiche facoltà. Ogni nuovo approccio, sulle prime, sembrava fornire la prova di qualche relazione significativa, ma invariabilmente, ad un esame più accurato, si era disillusi.

In epoca più recente, combinando i dati ottenuti dall’esame necroscopico di cervelli post mortem con quelli rilevati in vivo mediante risonanza magnetica nucleare, si è provato a verificare quanto era emerso dagli studi del XIX secolo. Prendendo le mosse da dati morfologici macroscopici, secondo una metodologia seguita in neurologia comparata e clinica da oltre un secolo e in neuropsicologia da oltre mezzo secolo, sono state accuratamente esaminate le dimensioni assolute e relative dell’encefalo, sia corrette in rapporto alle dimensioni corporee sia non rapportate a tale parametro.

Per effetto di tali studi, il criterio del rapporto di proporzionalità diretta delle facoltà cognitive con il volume del cervello dei mammiferi è stato archiviato, specificamente per il riscontro di una rilevante incoerenza: le scimmie e i grandi primati antropomorfi, uomo incluso, sebbene siano considerati i mammiferi più intelligenti non hanno, né in senso assoluto né relativo, il cervello più grande.

Una lunga storia di rilievi di caratteristiche anatomiche esclusive o caratterizzanti il cervello umano rispetto a quello degli altri primati e dei mammiferi meno evoluti, quali l’asimmetria del planum temporale connessa al linguaggio, ha fornito sostegno per un certo periodo di tempo all’ipotesi dell’esistenza, alla base delle facoltà cognitive, di specifici moduli funzionali corrispondenti a particolari aree topografiche. In quel periodo, Michael Gazzaniga era solito proporre la figura metaforica di un modulo cosciente del linguaggio verbale, a sede prevalente nell’emisfero sinistro, come di una madre che tiene per mano tanti bambini, che a loro volta si tengono per mano l’un l’altro, rappresentando i moduli alla base dei processi cognitivi necessari all’intelligenza e all’esecutività.

L’abbandono di questa interpretazione da parte di molti, ha coinciso con i progressi degli ultimi decenni ottenuti mediante l’approccio cellulare alla conoscenza dei rapporti fra la funzione di una singola cellula e l’attività mentale - ad esempio nella rappresentazione interna dello spazio e dell’azione - e lo sviluppo della scienza neurale cognitiva (cognitive neural science) che usa una combinazione di metodi per studiare la mente: biologia cellulare, scienza dei sistemi neuronici, brain imaging, neurologia comportamentale, neuroscienze computazionali e psicologia cognitiva. Con questo approccio, pur conservando i principi del metodo anatomo-clinico sviluppati a partire dal lavoro di Penfield degli anni Cinquanta ed enunciati nel celebre Higher Cortical Function in Man di Alexander Luria (1962), si sono fatti grandi progressi nella comprensione dell’organizzazione funzionale della corteccia cerebrale alla base delle funzioni cognitive. Tali nuove acquisizioni sono divenute imprescindibili per qualsiasi approccio scientifico alle basi dell’intelligenza[2].

A lungo, l’intelligenza è stata un oggetto di studio quasi esclusivo della psicologia, sia perché il concetto che la esprime è un’astrazione culturale non univocamente intesa ed intrinsecamente distante dal concetto di funzione biologica, sia perché le conoscenze neuroscientifiche certe rimanevano ad un livello troppo elementare per consentire di affrontare la più alta espressione dell’attività psichica. L’approccio psicologico per oltre un secolo si è basato su metodi psicometrici, il cui fondamento teorico ci consente di ripartire tutti i test di intelligenza in due grandi categorie: quella che fa riferimento ad un fattore generale (G) e quella che considera la facoltà misurata come la risultante di fattori specifici (s) combinati fra loro. Lo studio neuroscientifico attuale si basa su una concezione che si può accostare a quella della seconda categoria di esami psicometrici, come tentativo di comprendere le basi neurobiologiche di processi isolabili che si ritiene agiscano in combinazione per dare luogo alle prestazioni cognitive considerate espressione di intelligenza.

In questo campo, Dicke e Roth dell’Istituto di Ricerche sul Cervello dell’Università di Brema, propongono una rassegna degli studi più recenti dalla quale si possono desumere fattori neuronici che sembrano determinare il più elevato grado di intelligenza.

La lettura di questo articolo è sicuramente istruttiva per tutti coloro che si occupano di neuroscienze, oltre che, naturalmente, per i cultori delle basi neurali dell’intelligenza (Dicke U. & Roth G., Neuronal factors determining high intelligence. Philosophical Transactions of the Royal Society of London B: Biological Sciences 371 (1685) Jan 5, 2016).

La provenienza degli autori è la seguente: Brain Research Institute, University of Bremen, Bremen (Germania).

Alcuni aspetti delle basi morfo-funzionali cerebrali che caratterizzano i più alti processi cognitivi furono analizzati in un convegno organizzato dalla nostra società scientifica e in parte sintetizzati in una serie di resoconti dai contenuti ancora attuali, pubblicati nella sezione NOTE E NOTIZIE[3], nella quale si trovano anche numerose note di recensione di studi sulle basi biologiche delle facoltà cognitive.

Una definizione operativa di intelligenza, funzionale alle metodologie correntemente impiegate nella ricerca delle basi neurali, fu introdotta da Joaquin M. Fuster nel 2003: “L’abilità di adattarsi a nuovi cambiamenti per risolvere nuovi problemi e per creare nuove forme valide di azione e di espressione”[4].

Una tale definizione è particolarmente aderente alla concezione alla quale fanno riferimento gli studi che, storicamente mediante il metodo anatomo-clinico e recentemente mediante neuroimaging, tendono a porre in rapporto un intero lobo o vaste aree della corteccia cerebrale con funzioni valutate mediante prove cognitive formalizzate. È interessante notare che, sebbene fin dagli albori della ricerca sui lobi frontali e fino ad oggi si sia sempre posta in relazione la superiore intelligenza umana con la regione di corteccia cerebrale che raggiunge la massima espansione negli organismi animali intellettivamente più dotati, fin da tempi remoti (Munk, 1882) l’assunzione che la corteccia frontale sia la base neurale dell’intelletto è stata contraddetta da numerose osservazioni cliniche e sperimentali. La maggior parte dei pazienti con lesioni frontali non presenta grandi deficit intellettivi; infatti, la maggioranza presenta un QI[5] normale ed alcuni sono stati capaci di prestazioni cognitive di alto grado (Hebb, 1939; Stuss e Benson, 1986). D’altra parte, questi risultati possono riflettere le complesse caratteristiche di una organizzazione funzionale per reti neuroniche che collegano tante aree dell’encefalo e non sono confinate nella corteccia lobare.

Eppure, in numerosi lavori recenti, si è avuta conferma di un rilievo caratteristico della ricerca storica sulla neurofisiologia dei lobi frontali: i danni di questa corteccia possono compromettere singole funzioni o facoltà, quali l’attenzione, il ragionamento, la soluzione di problemi logici, l’espressione verbale, alcune forme di memoria, abilità di astrazione e la capacità di formulare piani di comportamento e seguirli fino al perseguimento dello scopo (Brickner, 1936; Rylander, 1939; Goldstein, 1944; Halstead, 1947; Milner, 1963, 1964; Hamlin, 1970; Drewe, 1974). Tutte queste abilità si possono ritenere – come osserva Fuster – componenti dell’intelligenza e, pertanto, il difetto più o meno marcato di una o più di tali facoltà, non compensato adeguatamente, si può ritenere responsabile di quei casi in cui la lesione frontale sembra compromettere l’intelligenza in generale. Attualmente, si tende a studiare la funzione della corteccia prefrontale in rapporto alle funzioni esecutive: attenzione, memoria, working memory, pianificazione, integrazione temporale, processi decisionali, monitoraggio e controllo inibitorio. In tale chiave è emersa la sua principale funzione: l’integrazione temporale intelligente del comportamento, principalmente quando si tratta di comportamenti complessi, originali e creativi[6].

Gli studi esaminati da Dicke e Roth documentano che il rapporto più stretto e verosimile fra tratti neuronici cerebrali e grado di intelligenza animale, particolarmente nei mammiferi, è quello rilevato fra una serie di dati di misura e un parametro, la IPC (information processing capacity), messo ordinariamente in relazione con l’intelligenza generale.

In particolare, sono stati eletti come significativi: 1) il numero di neuroni della corteccia cerebrale; 2) la densità alla quale sono compressi per unità di volume i corpi cellulari (pirenofori) delle cellule nervose (NPD, neuron packing density); 3) la distanza interneuronica; 4) i fattori di velocità della conduzione elettrica lungo l’assone.

Nell’insieme, queste caratteristiche influenzano la IPC generale di un animale.

I gradi più elevati di IPC, come era facile prevedere, sono stati rilevati nella specie umana, seguita dalle grandi scimmie antropomorfe (great apes) e poi dalle scimmie del Vecchio Mondo e del Nuovo Mondo.

La IPC di cetacei ed elefanti, a dispetto di inferenze derivate da studi classici, è molto più bassa, soprattutto a causa di uno spessore corticale notevolmente inferiore, di una bassa densità di neuroni per unità di volume e di una bassa velocità di conduzione assonica.

Lasciando i mammiferi, risultati del tutto diversi sono stati rilevati negli uccelli.

Di passaggio, ricordiamo che a lungo in anatomia comparata è stata negata l’esistenza di una corteccia cerebrale nel cervello degli uccelli, perché il pallio aviario, pur essendo un omologo del manto corticale dei mammiferi, non ne ricalca né lo spessore, né la complessità strutturale, né la sofisticata organizzazione funzionale. In effetti, nel cervello degli uccelli dominano alcuni aggregati neuronici, quali il centro vocale superiore (HVC, high vocal center) o il nucleo RA, e il principale nucleo uditivo del telencefalo, ossia il complesso L, è considerato un analogo della corteccia uditiva dei mammiferi.

Tanto premesso, lo studio di specie aviarie appartenenti ai corvidi e agli psittacidi ha evidenziato nella struttura corticale neuroni di dimensioni molto piccole - rispetto a quelle dei neuroni piramidali e dei principali neuroni inibitori dei mammiferi - ma molto densamente ammassati e compressi nel tessuto neurogliale. In particolare, il numero di queste piccole cellule nervose, sia in senso assoluto che relativo, è risultato molto elevato a dispetto di un piccolo volume cerebrale, suggerendo che tale abbondanza di neuroni possa spiegare l’elevata intelligenza di queste specie, che supera di gran lunga quella della media degli uccelli. Si ricordano, in proposito, gli studi pionieristici condotti da Irene Pepperberg sul pappagallo cinerino di nome Alex, che consentirono di scoprire negli psittacidi risorse di categorizzazione, associazione e calcolo davvero inaspettate[7].

I risultati di altri lavori inclusi nella rassegna di Dicke e Roth forniscono supporto alla tesi secondo cui lo sviluppo di un linguaggio verbale con una struttura sintattica e grammaticale, abbia rappresentato, per la specie umana, un amplificatore delle capacità intellettive. Secondo questa prospettiva, lo sviluppo di una sintattica del canto, presente negli uccelli cantori e negli psittacidi, potrebbe aver agito in modo simile, accrescendone l’intelligenza.

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Lorenzo L. Borgia

BM&L-16 gennaio 2016

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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La Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica e culturale non-profit.

 

 

 

 

 



[1] Il rilievo di un maggior numero di circonvoluzioni nella corteccia umana rispetto a quella di altri mammiferi, e in particolare degli animali lissencefali, non è un’acquisizione di epoca moderna: Erofilo, al quale si deve la descrizione del torculare, già nel III secolo a.C. scriveva: “Nell’uomo, che sorpassa tutti gli altri animali per la sua intelligenza, le circonvoluzioni del cervello sono molto più ricche” (Cfr. “Drops” nella sezione “RUBRICHE”).

[2] Un’introduzione a queste nuove acquisizioni si trova nei capitoli dedicati alle basi neurali della cognizione di Kandel, Schwartz, Jessel, Siegelbaum, Hudspeth (editors), Principles of Neural Sciences. McGraw Hill, 2013.

[3] Sul tema “Le differenze neurobiologiche all’origine dell’unicità umana” si tenne cinque anni or sono una serie di incontri riportati in sintesi in queste note: Note e Notizie 27-03-10 Cosa rende unico il cervello umano – primo incontro; Note e Notizie 10-04-10 Cosa rende unico il cervello umano – secondo incontro; Note e Notizie 17-04-10 Cosa rende unico il cervello umano – terzo incontro- prima parte; Note e Notizie 24-04-10 Cosa rende unico il cervello umano – terzo incontro- seconda parte; Note e Notizie 01-05-10 Cosa rende unico il cervello umano – quarto incontro- prima parte; Note e Notizie 08-05-10 Cosa rende unico il cervello umano – quarto incontro- seconda parte.

 

[4] Fuster J. M., The Prefrontal Cortex, pp. 195-196, AP Elsevier, San Diego 2008. In questo volume si trovano anche le indicazioni bibliografiche dettagliate dei riferimenti citati in parentesi solo per autore e data.

[5] Per quanto il QI si possa criticare, in questi casi rappresenta una misura significativa, se non altro per il rapporto con valori medi normali ottenuti su grandi numeri.

[6] Fuster J. M., The Prefrontal Cortex, p. 196, AP Elsevier, San Diego 2008.

[7] Si veda nella sezione AGGIORNAMENTI – Ricerca negli uccelli e neuroscienze (scheda introduttiva).